Un modo “nuovo” di guardare le cose solite

Un modo “nuovo” di guardare le cose solite


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Sui manuali di storia dell’arte Edward Hopper (Nyack, 1882 – New York, 1967) – quando non è dimenticato – è definito sinteticamente come “il pittore del realismo americano”. Ma che cosa significa tale affermazione? Quali sono gli elementi di questo suo realismo? Certo, si potrebbe dire semplicemente che Hopper è realista perché dipinge le cose, la realtà dell’America negli anni della crisi. Ma questo non basta, perché a ben guardare la pittura di Hopper è molto lontana da un realismo inteso semplicemente come mimesi. Il suo realismo, o forse meglio, la sua fedeltà al reale non si esaurisce infatti nella rappresentazione mimetica di ciò che ha di fronte, ma emerge innanzitutto nella fedeltà a ciò che il rapporto, dialettico e talvolta drammatico, con la realtà suscita in lui: “Il mio ideale in pittura è sempre stato la trascrizione più esatta possibile delle impressioni più intime che mi suscita la natura”.

(Marco Vianello)

Lo sguardo di Hopper
Questo è il criterio che lo stesso artista ci chiede esplicitamente di adottare nello stare di fronte alle sue opere: “Il nucleo intorno a cui l’artista costruisce l’opera è, prima di tutto, se stesso, la sua stessa personalità”. Più volte, parlando con i suoi amici o rispondendo ad interviste, Hopper ripete questo concetto: «L’opera è l’uomo. Una cosa non spunta dal nulla», ed anche «Credo di non aver mai cercato di dipingere la “scena americana”; io cerco di dipingere me stesso». Per tale motivo occorre cercare di comprendere chi è l’uomo Hopper. Per i critici è indicato in modo unanime come l’artista americano più rappresentativo del XX secolo, la sua stessa esistenza, durata 85 anni, attraversa tutta l’arte occidentale, dalle avanguardie alla Pop Art, restando sempre fedele alla sua poetica. La sua scelta di fare questo mestiere fin da giovane e la fedeltà con cui segue questa vocazione lo innalzano ad uno dei principali artisti americani del secolo. “L’arte che racchiude una verità fondamentale è sempre moderna. Per questo Giotto è moderno come Cézanne”, per Hopper tutta l’arte, anche quella del passato, è “sempre moderna” perché ha qualcosa da dire a chi vive nel presente, è contemporanea all’esperienza dell’osservatore non perché accade ora ma perché racchiude la verità. Per Hopper l’arte è tale quando si fa espressione dell’esperienza umana: “se una cosa potessi esprimerla a parole, non avrei bisogno di dipingerla”. «Usare sempre la natura come mezzo per provare a fissare sulle tele le mie reazioni più intime nei confronti dell’oggetto, così come esso appare, nel momento in cui lo amo di più». Nella nostra vita ci sono momenti di simpatia e corrispondenza totale con il reale che ci permettono di amarlo e, quindi, di conoscerlo nella sua origine: questo concetto è espresso in due poesie amatissime da Hopper, che lui stesso citava a memoria:

Quiete (di W. Goethe)
Su tutte le cime è quiete.
In tutte le valli non un suono.
Tacciono gli uccelli del bosco.
Aspetta: presto riposerai anche tu.

Si tratta di quello stesso silenzio che parla al cuore di Hopper e che lui stesso dipinge nei suoi quadri. Ma la poesia più amata da Hopper è collegata ad un episodio importante della sua vita: al primo incontro con quella che poi sarebbe diventata sua moglie, iniziò a recitarla e, come lui stesso racconta, lei la terminò per lui; la poesia descrive una sorta di “attimo eterno”:

L’ora squisita (di P. Verlaine)
Un vasto e tenero acquietamento sembra discendere dal firmamento che l’astro illumina.
È l’ora squisita.

Tutta la sua opera ha al centro il suo rapporto di uomo con la realtà, ed è questo che, da artista, esprime attraverso la sua pittura. Perciò è fondamentale, per capire ed apprezzare Hopper, capire il rapporto personale che ha con la realtà ponendosi due domande: che cosa mette in luce il suo sguardo? di cosa fa esperienza Hopper nella realtà che fissa sulle sue tele?

I soggetti di Hopper
Hopper dipinge prevalentemente un’America “di secondo piano”, l’America vagamente fuori-moda, l’America “provinciale”: luoghi ed ambienti consueti, quotidiani, banali ma che, nelle sue opere, con il suo sguardo, ci offre come molto evocativi ed universali. I personaggi e le figure delle sue opere vivono attimi che costituiscono la realtà quotidiana di tutti e di tutti i giorni: persone che escono di casa, che si affacciano alla finestra, che leggono, che prendono un caffè al bar… ma quegli attimi sono colti nell’“ora squisita”; azioni di una banalità assoluta che Hopper, mediante l’uso della luce e la scelta del punto di vista, carica di una grande domanda di senso, coglie nell’attesa che questa quotidianità solita, acquisti un senso.Le cose sono viste nella prospettiva della promessa che hanno dentro. Nelle opere di Hopper c’è “il senso del semplice stare al mondo”. Le cose ci sono ed il loro stesso esistere suscita la più semplice delle domande: perché? Lo sguardo di Hopper è uno sguardo “ontologico” (che riguarda la struttura dell’essere, la sua radice) che coglie la densità dell’istante che, come dice il suo amico pittore Charles Burenfield, “ha saputo cogliere un momento particolare, quasi il preciso momento in cui il tempo si ferma, dando all’attimo un significato universale, eterno”. Nelle opere di Hopper non accade nulla, c’è l’assenza di azione, eppure sono cariche di una tensione dolorosa, conseguenza del rivelarsi di questa domanda di senso della realtà, la domanda di infinito che fa oscillare le figure, le persone, tra lo smarrimento e la speranza. I luoghi dipinti da Hopper sono il mare, la campagna, la città, non quella frenetica del traffico, dei grattacieli, ma quella della solitudine “ho dipinto, forse senza saperlo, la solitudine di una grande città”. I personaggi di Hopper abitano questa solitudine, vivono in spazi che non sono loro (camere di hotel, vagoni di treno, uffici, bar, teatri). Non sappiamo cosa pensano e non riusciamo a capire se stanno guardando qualcosa e cosa; non sappiamo dove stiano volgendo lo sguardo; perciò di queste persone percepiamo solo il loro esistere che, per noi che guardiamo, diventa domanda; domanda di significato. Essi stessi esprimono, talvolta, una tensione sfibrante ed il desiderio di senso quando li vediamo “in attesa”, nel senso etimologico della parola “ad-tendere”, “tendere verso…”, sulla soglia di casa o affacciati alla finestra o sulla veranda, nell’indecisione se uscire o restare, con le mani strette ad un corrimano e con lo sguardo teso verso qualcosa.

La luce di Hopper
La luce è dentro lo sguardo di Hopper: “la luce è importante per me ma non in modo consapevole; è il mio modo naturale di esprimermi.” Ciò che lo attrae è “la fisicità degli oggetti colpiti dalla luce”. “Da bambino sentivo che la luce della parte alta di una casa era diversa da quella della parte più bassa. Quella in alto ha più gioia!” La luce di Hopper è nitida, geometrica, immobile: non smaterializza la realtà (come accade per la luce delle opere impressioniste), ma illumina e, nell’illuminarla, le dà consistenza. Scegliendo di vivere a Cape Cod nei mesi caldi dell’anno, in una casa semplice e con poche comodità, affacciata sull’Atlantico, sceglie la luce, si stabilisce in una casa sulla collina, che domina la baia: “a Cape Cod c’è una luce meravigliosa, intensissima, forse perché è così protesa sul mare, è quasi un’isola”. Nelle tele di Hopper il sole, l’origine della luce che inonda il mondo, non si vede mai; nell’ultimo periodo i suoi personaggi, sempre più frequentemente, sono rappresentati mentre cercano il sole.

Il punto di vista
Nelle sue opere la realtà è rappresentata in una modalità che sottintende la presemza di un osservatore e ne guida lo sguardo. Nei suoi dipinti ci sono viste di scorcio, dall’alto, dal basso, finestre che mostrano stanze, o mostrano altre finestre, o pezzi di case, o campagne, o mare. Per fruire della bellezza delle opere di Hopper, siamo obbligati ad immedesimarci con il suo sguardo, ad avere il suo punto di vista. L’osservatore, perciò, non ha un ruolo passivo, ma è come costantemente provocato a chiedersi: «Ma tu, cosa vedi da dove sei?, Cosa ti mostra la luce?» e dalla domanda sulla realtà mostrata nella tela, l’osservatore passa, viene condotto, alla domanda sul senso della propria vita. Questo è immediatamente evidente davanti a certi quadri che rappresentano stanze vuote, davanti ai quali avviene come un ribaltamento: le stanze non sono più vuote, ci siamo dentro noi che ne viviamo l’insolita prospettiva. Ad esempio in “Stanza sul mare” del 1951 l’angolazione dell’opera annulla la distanza tra l’osservatore e l’oceano ed apre direttamente sull’infinito. La modernità di Hopper è tutta nel “senso di incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana”. Nella banalità di tutti i giorni si apre la possibilità dell’Infinito e l’uomo, consapevole o inconsapevole, sta su questa soglia in attesa di scegliere con la sua libertà se dentro l’istante che vive, questa possibilità sia il fattore di speranza o di smarrimento. Il fascino delle opere di Hopper è tutto nel fatto che riescono a far sentire, ciascuno di noi, su questa soglia.

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