In occasione della mostra fotografica “Urban solitude” del maestro del cinema Wim Wenders (esposta a Roma fino al 6 luglio 2014) diamo un piccolo contributo di conoscenza alla sua opera (che, appunto, non è solo filmografica) necessario a cogliere il forte legame con la fotografia e l’architettura. Questa passione fa, di tutti i suoi film, un vibrante racconto poetico fatto di immagini e di luoghi spesso deserti, vuoti, ma pieni dell’essenziale, come le opere del maggiore pittore americano del ’900, Edward Hopper, al quale – come Wenders stesso racconta in “La tela bianca”, splendido documentario prodotto da Sky Arte con la collaborazione del Centre Pompidu – il grande cineasta si sente profondamente legato e debitore.
Questa sua sensibilità ed attenzione sono riscontrabili in diverse mostre allestite con i suoi scatti nel corso degli anni – delle quali “Urban solitude” è solo l’ultima in ordine di tempo – e nel volume Vedere i luoghi dell’anima, a cura di Carlo Truppi, edito da Electa, in cui sono raccolte numerose fotografie scattate dal regista in oltre vent’anni, in un dialogo continuo fra architettura e cinema in cui i luoghi abitati dai protagonisti sono parte integrante della storia, sono la filigrana poetica del racconto.
Per documentare questa passione non c’è cosa migliore – oltre naturalmente all’invito a visitare la mostra – che farsi raccontare da Wenders stesso cosa c’è dietro il suo modo di guardare la realtà, un racconto che, a leggerlo oggi, si scopre profetico (dal 1991 quanto è cambiato il modo di produrre e fruire le immagini!). Perciò proponiamo un estratto del suo intervento ad un convegno di architetti svoltosi il 12 ottobre 1991 a Tokyo dal quale emerge, chiaro e potente, il moto della sua passione.
«Non sono né un architetto né un urbanista, e posso parlarvi solo nella mia qualità di cineasta che ha vissuto e lavorato in diverse città, puntando la cinepresa davanti a tanti paesaggi – soprattutto paesaggi urbani, ma anche regioni di campagna, zone di confine, nodi austostradali o distese desertiche.
Il cinema è una cultura urbana, nata sul finire del secolo scorso e cresciuta parallelamente all’espansione delle metropoli. Il cinema e le città sono cresciute e diventate adulte insieme, e i film sono testimonianze dei grandi mutamenti che hanno trasformato le eleganti città di fine secolo nelle difficili e nevrotiche megalopoli di oggi. Il cinema è stato anche testimone delle distruzioni di due guerre mondiali; ha visto crescere i grattacieli e i ghetti, ha visto i ricchi diventare sempre più ricchi e i poveri più poveri… è insomma lo specchio adeguato delle città del Novecento e degli uomini che le abitano. In misura maggiore delle altre arti, i film sono documenti storici del nostro tempo. La settima arte è stata in grado più di ogni altra di catturare l’essenza, il clima e le tendenze del suo tempo, anche le speranze, le paure e i sogni, articolandoli in un linguaggio universalmente comprensibile.
Diventato parte integrante e attiva del nostro ambiente, il cinema ci mostra il paesaggio urbano dalla prospettiva delle immagini; e vorrei che vi soffermaste un momento su questo temine: ‘immagine’ non è certo un concetto chiaro e univoco, perché può indicare di tutto, sia entità totalmente astratte che fatti molto concreti. E l’immagine di paesaggi urbani che il cinema ha tracciato nel corso della sua storia sono molto diverse dall’aspetto che hanno assunto oggi; suggeriscono una realtà in completa trasformazione.
Voi tutti sapete quanto si siano modificate le città, quanto sia cambiata ad esempio Tokyo negli ultimi cento, o cinquanta, addirittura negli ultimi dieci anni. Si tratta di un processo che sembra subire una continua accelerazione, e noi siamo ormai abituati sia ai cambiamenti che alla rapidità con cui si verificano. Ma contemporaneamente all’ambiente urbano cambiano appunto anche le immagini. Forse si può addirittura affermare che le immagini e le città si evolvono in maniera analoga, probabilmente parallela.
Gli uomini preistorici tracciavano disegni alle pareti delle loro caverne, incidevano forme sulla pietra o facevano segni sulla sabbia. Poi impararono a dipingere su altre superfici, nelle cupole delle chiese o su tele, e per secoli la verità poteva essere raffigurata solo tramite la pittura. Ogni immagine era un unicum: chi voleva osservare un’opera era costretto a guardare la tela o a visitare la chiesa che la conservava. Poi, con l’invenzione della stampa, le immagini vennero riprodotte e cominciarono a circolare, sotto forma di incisioni e riproduzioni. Nell’Ottocento ci fu un grande balzo in avanti. Con l’invenzione della fotografia nacque un rapporto totalmente nuovo tra realtà e rappresentazione. Il passo successivo non tardò a venire: le immagini fotografiche si misero in movimento. A quel punto, bastava entrare in un cinema della propria città per vedere il mondo intero. Passarono trenta o quarant’anni e arrivò un altro concorrente, l’immagine elettronica, che si dimostrò più rapida del cinema, capace inoltre di mostrare gli eventi dal vivo. Fu chiamata televisione, ovvero ‘vedere lontano’, e creò al contempo vicinanza e distanza. Le sue immagini erano più fredde, meno cariche di emozioni; e si allontanavano ancor più dall’idea che ogni raffigurazione dovesse contenere in sé la realtà. Non esisteva più un originale ben identificabile, come il negativo del processo fotografico. Era necessario un maggiore apparato tecnico per colmare la distanza tra la realtà e lo spettatore seduto a casa davanti al piccolo schermo. Inoltre, la televisione isola l’osservatore: non bisogna più uscire di casa, mettersi in fila e poi sedersi tra estranei per fare un’esperienza collettiva, quindi sociale.
Ma anche la televisione si vide presto esposta alle trasformazioni. Nacquero sempre nuove emittenti, si aggiunsero le televisioni via cavo, la ricezione via satellite e soprattutto i video (cioè ‘io vedo’ in latino). Con l’arrivo dei videotape, il pubblico non era più dipendente dalla programmazione delle emittenti, perché era in grado di decidere liberamente il proprio programma. Né era costretto ad acquistare videotape già realizzati, giacché poteva realizzare da sé immagini elettroniche. La tecnologia necessaria divenne sempre più semplice, più economica, più maneggevole. Oggi chiunque può portare nella tasca della giacca la sua handycam, ogni bambino può realizzare la sua realtà di ‘seconda mano’. Ma anche questo non è l’ultimo cambiamento: ci troviamo infatti alle porte della rivoluzione digitale, e dell’immagine video ad alta risoluzione, della ‘high vision’. Le immagini elettroniche ne usciranno più mature, più belle, più cariche di dettagli e di fascino. E cancelleranno definitivamente ogni idea di ‘originale’, perché ciascuna copia sarà perfettamente identica al primo supporto registrato; ogni immagine elettronica sarà disponibile ovunque e ovunque riproducibile.
Ma tutti i progressi dell’alta definizione non renderanno certo le immagini più affidabili e credibili, tutt’altro: saranno infatti manipolabili a qualsiasi livello, e quindi anche alterabili a piacere. Ogni singolo pixel, ogni minima unità, potrà essere manipolato. E non esistendo più alcun originale, non ci sarà più nessuna prova di autenticità. L’immagine digitale non farà quindi che spalancare ancor più il solco esistente tra la realtà in quanto tale e la sua rappresentazione.
Nel corso della loro storia, le immagini hanno interamente cambiato natura, passando dall’unicum del dipinto fino al clone digitale. L’evoluzione è stata estremamente rapida, e con altrettanta rapidità si sono moltiplicate di numero. Noi oggi ne veniamo bombardati come non è mai successo nella storia dell’umanità. Bombardamento che non diminuirà certo perché nessuna autorità pubblica, nessuna istituzione, nessun governo potrà impedire l’espansione del regno delle immagini. I computer, i giochi elettronici, i videocitofoni, la ‘realtà virtuale’ sono solo alcuni degli ingredienti di questa inflazione. E gli uomini hanno imparato a adeguarsi a questo sviluppo frenetico, afferrando con maggiore rapidità i nessi visivi, vedendo più rapidamente, mentre gli altri sensi si atrofizzano. Se venisse proiettato uno dei nostri film d’azione a un pubblico degli anni trenta, la gente abbandonerebbe le sale disorientata o furiosa. E se una famiglia degli anni cinquanta o sessanta dovesse passare col telecomando su cinquanta diversi canali di una televisione di oggi, tutti cadrebbero in una crisi isterica o nell’apatia, a seconda delle disposizioni dei singoli.
Le immagini si moltiplicano, si impongono ovunque e prendono sempre più possesso della nostra esistenza; e diventano non solo sempre più belle, ma soprattutto sempre più seducenti. La fotografia e il cinema avevano sfruttato proprio l’innata forza seduttiva delle immagini sviluppando un nuovo linguaggio e anche una nuova morale. Nell’Unione Sovietica degli anni venti e nella Germania degli anni trenta, alla grammatica filmica s’era poi aggiunta la propaganda. E sarà soprattutto l’industria della pubblicità ad appropriarsi delle nuove tecniche di persuasione e seduzione. Già negli anni cinquanta e sessanta, il nuovo linguaggio elettronico della televisione ha ribaltato e svuotato la grammatica filmica per poi venire a sua volta assalita dalle leggi della pubblicità e dall’estetica dello spot. Come la televisione ha cambiato il cinema, così la pubblicità ha trasformato la televisione, e oggi dobbiamo senz’altro tenere presente che lo spirito pubblicitario si è ormai insinuato in ogni forma di comunicazione visiva.
Se un tempo, il compito prioritario e più nobile delle immagini era quello di mostrare le cose, oggi sembra che il suo obiettivo sia sempre più quello di vendere. Credo che le immagini abbiano vissuto un processo analogo e parallelo a quello delle nostre città, anch’esse cresciute a dismisura. Anche le nostre città sono diventate sempre più fredde, più inaccessibili; estranee e stranianti; anch’esse ci offrono sempre più esperienze di seconda mano; anch’esse sono sempre più dominate da un’indole commerciale. Gli abitanti devono trasferirsi nelle periferie, i centri storici sono troppo costosi, e vengono occupati dalle banche, dagli alberghi, dall’industria del consumo e del divertimento. Ciò che è piccolo scompare; nel nostro tempo sopravvive soltanto ciò che è grande. Le piccole cose semplici spariscono, come le piccole immagini semplici, o i piccoli, semplici film. Per le città, questa perdita è forse più evidente e probabilmente ancora più grave.
Così come le immagini che ci circondano sono sempre più stridenti, disarmoniche, strillanti, poliformi e sfacciate, allo stesso modo le città diventano più complesse, più assordanti, dissonanti, inafferrabili e opprimenti: le città e le immagini stanno proprio bene assieme. Prendiamo in considerazione soltanto l’immensa quantità di immagini urbane rappresentata dai segnali stradali, le immense insegne al neon sui tetti, le pubblicità sui muri, le vetrine, le pareti video, le edicole, le macchinette automatiche, i messaggi trasportati dalle automobili, dai camion, dagli autobus; le scritte sui taxi o nella metropolitana; ogni sacchetto di plastica porta un’immagine stampata… Noi ci siamo abituati. Quando mi recai per la prima volta in una città dell’ex blocco sovietico (si trattava di Budapest), provai un autentico choc: non c’era nulla di tutto questo. Pochi segnali stradali, qualche orribile bandiera, un paio di slogan appassiti; per il resto una città senza immagini, senza pubblicità.
In quel momento capii quanto noi eravamo abituati, e dipendenti, dalla quantità dei messaggi visivi. La pubblicità si è ormai resa indispensabile; le immagini stanno diventando una droga e con le droghe – è noto – che c’è il rischio dell’overdose. Cosa possiamo fare per difenderci?
Come cineasta sono arrivato alla conclusione che le mie immagini hanno un’unica possibilità per non essere travolte da questo immenso flusso visivo di concorrenzialità e commercializzazione: devono narrare una storia.
Nel mestiere del regista si cela il pericolo di produrre immagini fini a se stesse, e dai miei stessi errori ho imparato che una ‘bella immagine’ non ha alcun valore in sé, al contrario: una bella immagine può distruggere l’effetto ed il funzionamento dell’intera struttura drammatica. Quando iniziai a fare cinema, se il pubblico lodava le mie immagini mi ritenevo estremamente lusingato, come se fosse il miglior plauso. Oggi, se qualcuno le loda penso piuttosto di avere sbagliato qualcosa nel film. E dai miei sbagli ho imparato che l’unico antidoto contro le immagini autocelebrative è credere fermamente alla priorità della storia. Solo la storia, l’insieme dei personaggi conferisce credibilità a ogni singolo fotogramma.
Queste mie esperienze di cineasta possono essere tradotte in quelle degli architetti e degli urbanisti? Esiste nel paesaggio urbano un corrispondente di ciò che è la storia per un film?
Non lo so. Per avvicinarmi alla risposta devo fare qualche passo indietro. Mentre dicevo che la storia protegge i personaggi dalle immagini autocelebrative, quindi superflue o addirittura inermi, pensavo anche che un paesaggio, una strada, una fila di case, una montagna, un ponte, un fiume, sono per me qualcosa di più di un semplice sfondo. Possiedono infatti una storia, una personalità, un’identità che deve essere presa sul serio; e influenzano il carattere degli uomini che vivono in quell’ambiente, evocano un’atmosfera, un sentimento del tempo, una particolare emozione. Possono essere brutti, belli, giovani o vecchi; ma sono comunque elementi presenti. Quindi meritano di essere presi sul serio.
Nel corso degli ultimi anni ho lavorato in Australia e ho avuto la fortuna di conoscere gli aborigeni. E mi ha sorpreso che per loro ogni singola conformazione del paesaggio incarni una figura del loro passato. Ogni collina, ogni roccia porta in sé una storia intimamente legata alla loro epoca. E mi è tornato in mente come anch’io, da bambino, nutrissi simili convinzioni. Un albero non era semplicemente un albero, ma anche uno spettro; e i profili delle case avevano tratti umani, c’erano case serie, case truci e case amichevoli. Un fiume poteva mettere paura, ma anche dare pace. Le strade avevano una personalità; alcune le evitavo, in altre mi sentivo al sicuro. Le montagne e i profili dell’orizzonte erano i riflessi di certe nostalgie e desideri, e ricordo ancora la mia paura di fronte a una grande roccia in un bosco, che chiamavamo ‘la donna seduta’.
I paesaggi e le immagini delle città evocano nei bambini emozioni, associazioni, idee, storie. Diventando adulti tendiamo a dimenticarle, perché impariamo a difenderci dal nostro sapere infantile, che si affidava molto più ai nostri occhi: ciò che vedevamo determinava la coscienza di noi stessi e dei nostri luoghi.
A New York ho abitato per un periodo in un appartamento con vista sul Central Park. Tutte le volte che uscivo dal palazzo vedevo davanti a me un grande macigno di roccia, ai margini del parco, che a seconda del tempo cambiava colore. Era un frammento dello strato di granito su cui è costruita l’intera città. Ogni volta che gettavo uno sguardo sul masso ne traevo una sensazione di equilibrio: era molto più antico della città intorno a me, era robusto e mi dava sicurezza perché stranamente mi sentivo legato a lui. Ricordo una volta di avergli rivolto un sorriso, come a un amico: irradiava su di me una sorta di quiete, mi rendeva più calmo. La città in cui ora vivo poggia su un vastissimo strato di sabbia, dal colore molto chiaro; e di tanto in tanto la si vede, sia pur in un cantiere. Anche questa sabbia risveglia in me un senso di comunanza, addirittura di sicurezza, perché mi indica il luogo in cui mi trovo. Ovviamente anche gli edifici lo fanno, ma in maniera diversa. Berlino è una città particolare, perché durante la guerra ha subito lacerazioni devastanti, che la successiva divisione della città non ha certo guarito.
Berlino ha molte superfici libere. Si vedono case con pareti interamente vuote perché la casa a fianco non è stata ricostruita dopo il bombardamento. Gli sconfortanti muri laterali di questi palazzi sono chiamati pareti frangifuoco, e non esistono altrove. Sono come ferite, e a me la città piace per le sue ferite, che mi raccontano la sua storia molto meglio di qualsiasi libro o documento. Durante le riprese del ‘Cielo sopra Berlino’ mi accorsi che andavo sempre alla ricerca di queste superfici vuote, di queste terre di nessuno, perché avevo l’impressione che questa città potesse essere rappresentata molto meglio dalle zone vuote che da quelle occupate.
Quando c’è troppo da vedere, quando un’immagine è troppo piena o quando le immagini sono troppe non si vede più niente. Dal troppo si passa – molto presto – al nulla. E conoscete anche un altro effetto: quando un’immagine è spoglia, povera, può risultare talmente espressiva da soddisfare interamente l’osservatore, e così dal vuoto si passa alla pienezza. A Berlino, dove io vivo, sono proprio gli spazi vuoti a consentire agli uomini di farsi un’immagine della città perché, attraverso queste falle, si può vedere il tempo che è l’elemento che scandisce la storia. Quanto al cinema si possono fare considerazioni analoghe. Esistono film che sono come spazi chiusi: non lasciano il minimo spazio vuoto tra le singole immagini, non permettono di vedere ciò che è rimasto ‘fuori’ dal film, non consentono agli occhi e ai pensieri di muoversi liberamente. In questo genere di choc visivi lo spettatore non può riversare nulla di proprio, nessun sentimento, nessuna esperienza. E si esce dal cinema con un senso di delusione. Solo i film che lasciano spazi vuoti tra le immagini raccontano una storia, ne sono convinto, perché una storia si produce anzitutto nella testa dello spettatore o dell’ascoltatore.
Le città non raccontano storie, ma possono conservare e mostrare la loro storia, renderla visibile oppure nasconderla. Possono aprire gli occhi, come succede nei film, o chiuderli. Possono divorare o nutrire la fantasia. (…) Ma se perderemo tutto ciò che è piccolo, smarriremo anche la nostra capacità di orientarci.
Io non sono un avversario dei grandi edifici, al contrario, mi piacciono. Adoro i monoliti, i grattacieli. Ma al contempo li trovo sopportabili, e abitabili, a condizione che siano circondati da viali alberati con negozietti, caffè, insomma che si possa incontrare un’alternativa. (…) Quando a Parigi abbatterono le Halles, seguii quello spettacolo con rabbia e dolore. Per anni non rimase che un immenso buco, rimpiazzato poi da un immenso sistema sotterraneo con negozi e boutique che aveva comunque i tratti della precedente voragine. Non vorrei essere frainteso. lo non sono ostile alla costruzione di nuovi edifici, alla modifica dell’aspetto urbano. Ad esempio, se come regista affermassi che ogni nuovo film contribuisce soltanto all’inflazione di immagini, parlerei contro me stesso. No, la rinuncia non può essere una soluzione. Ogni nuovo edificio può porsi come esempio di chiarezza costruttiva, può esprimere un nuovo standard di funzionalità e rigore estetico.
Ma voi che siete architetti dovete tener conto anche del fatto che il frutto del vostro lavoro può essere inficiato dall’ambiente che lo circonda, così come io devo tener presente che i miei film possono essere proiettati in un cinema che mostra immagini di violenza o pellicole porno. Un mio film in televisione rischia di essere martoriato da un continuo cambio di programmi col telecomando. Non mi resta quindi che sperare nella capacità di ogni inquadratura, o per lo meno di ogni scena, di emanare quella calma e quella leggerezza che differenzia il film dai prodotti puramente commerciali.
Non dobbiamo lasciarci contagiare dalla spietata concorrenza che oggi regna tra le immagini, né cercare di catturare a ogni costo l’attenzione dello spettatore. Credo piuttosto che bisogna distanziarsi da questo genere di concorrenzialità. Si può dare il buon esempio solo rimanendo fedeli a se stessi, non inseguendo a ogni costo il trend.
Un edificio e un film hanno molti aspetti in comune. Devono entrambi essere progettati, preparati e finanziati. Un edificio deve avere una solida struttura portante, così come un film possiede l’elemento portante di una storia. E deve mostrare uno stile plausibile allo stesso modo di un film, che necessita di un suo complesso linguaggio. Voi dovete progettare un edificio abitabile, accogliente; ma anche un film deve avere queste qualità.
Io amo le città, ma a volte è necessario lasciarle, osservarle da lontano per capirne i pregi. Il deserto offre il migliore distacco per osservare la vita urbana; conosco i deserti americani e australiani, dove ogni tanto ci si imbatte in qualche resto della civiltà: una casa, una strada in rovina, una linea ferroviaria dismessa, anche un distributore di benzina abbandonato o un motel. (…) Una terra di nessuno all’intemo di una metropoli ha come prerogativa la presenza del paesaggio urbano tutt’intorno, e ce lo mostra in una prospettiva diversa, in un’altra luce. Mentre la comparsa nel deserto dei resti della civiltà rende il paesaggio ancora più vuoto.
Una volta, nel deserto del Mojave in California, vidi un cartello arrugginito, una sorta di reclame, molto lontano dalla strada. Era piantato nel nulla, e le sue grandi lettere sbiadite annunciavano: Western World Development – slots 410-460. Qualcuno doveva aver progettato proprio in quel lembo di deserto una città. Il paesaggio circostante era completamente arido, si vedeva solo qualche sparuto cactus. Provai a immaginare lì una città: osservando quella distesa avevo quasi l’impressione che fosse effettivamente esistita e soltanto scomparsa. Una cosa però non potevo ignorare: la regione era molto più antica di qualsiasi insediamento, quindi era anche inessenziale sapere se fosse o meno esistito un agglomerato urbano.
Alcuni anni dopo, in Australia, incontrai gli aborigeni: credevano di appartenere a quella regione, e si sentivano responsabili dei luoghi, ciascuno per una precisa zona. Erano effettivamente una parte del territorio. Il pensiero opposto, ovvero che qualcuno potesse possedere un pezzo di terra, era per loro inimmaginabile. Ai loro occhi, la terra era la proprietaria degli uomini, mai viceversa. La terra possedeva autorità. Forse tutti gli uomini del mondo, non solo gli aborigeni, nascono con questa convinzione. Ma la nostra civiltà ha completamente estinto o rimosso l’idea dell’appartenenza alla terra, e le immagini urbane ne sono la riprova. Le città hanno reso invisibile la terra, quasi per nascondere i loro sensi di colpa.
In molte città non è più possibile toccare la terra, sentire la durezza della pietra. Se un aborigeno dovesse vivere in una città simile morirebbe. Le città sono così piene di ogni genere di cose che hanno cancellato l’essenziale, vale a dire che sono vuote.
Il deserto al contrario è così vuoto che è straboccante di essenziale.
E per concludere il mio discorso vorrei pregarvi di considerare il vostro lavoro anche come creazione di luoghi futuri per i bambini. Le città e i paesaggi andranno a forgiare il loro mondo di immagini e desideri. E vorrei anche che provaste a considerare ciò che per definizione è l’esatto contrario del vostro lavoro: voi infatti non dovete solo costruire edifici, bensì creare spazi liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro. Wim Wenders
WIM WENDERS URBAN SOLITUDE a cura di Adriana Rispoli dall’incipit della mostra “Ad otto anni dalla sua ultima mostra fotografica a Roma, Urban Solitude offre una visione ampia e variegata dello sguardo di Wim Wenders sulla realtà. La fotografia, rigorosamente analogica, è per Wenders strumento per fissare, catturare e preservare una realtà dalla quale l’uomo si sta progressivamente allontanando rapito dalla virtualità dell’epoca contemporanea e favorito dall’utilizzo delle nuove tecnologie digitali.” Roma – Palazzo Incontro, Via dei Prefetti, 22 fino al 6 luglio 2014 Mar/Dom ore 11.00 – 19.00 (chiusura biglietteria 18.30) Info e prenotazioni: +39 06 97276614 www.fandangoincontro.it